giovedì, gennaio 25, 2007

Metti una sera a teatro. Con Marco Paolini, ovvio!

Marco Paolini è uno di quelli che ti fa amare le cose pesanti. Quelle cose che se le senti raccontate da Enzo Biagi ti vien voglia di diventare tossicodipendente. Il Vajont, Ustica ("In Italia l'indignazione dura meno dell'orgasmo. E dopo viene sonno."), le varie stragi su cui si fonda la nostra Repubblica (gli Album), l'uranio impoverito (I prologhi a Report su rai 3). Fa diventare Teatro la ricerca storica e sociale. Fa diventare Poesia i binari del treno e le stazioni come nessun altro. Fa diventare Arte la memoria. Lo amo. Come amo Mario Rigoni Stern (vedi post del 16 dicembre). Il capolavoro di Mario Rigoni Stern si intitola "Il sergente nella neve". Lo spettacolo di Paolini che ho visto mercoledì 19 gennaio a Porto S.Elpidio si intitola "Il sergente. A Mario Rigoni Stern". Come potevano essere le mie aspettative prima dell'inizio secondo voi? Inutile dire che erano a livelli stellari. Non sono state deluse. Mi interessava il racconto, sì (quando si parla di memoria mi si spalanca sempre il cuore, non posso farci nulla), ma mi interessava di più il Teatro, respirarne l'aria, vedere la gestualità dell'attore. Confrontare ciò che avrei visto con ciò che il mio maestro del laboratorio teatrale del martedì sera c'insegna.
Il palco: la scenografia è, oserei dire, minimale. Ci sono tre lastre metalliche che, innalzandosi sul fondale, fanno da specchio a teli bianchi (come la neve...) stesi a terra. Poche le luci: il rosso del sangue, il bianco della neve. C'è una vecchissima macchina da scrivere sulla destra, una cartina dell'Europa al centro, un microfono con leggìo a sinistra. La cartina serve solo all'inizio: "Guarda, Porto S.Elpidio. Ci vuole coraggio a dire NOI ATTACCHIAMO LA RUSSIA", poi se ne va verso la graticcia. E inizia il racconto. Soprattutto, inizia il Teatro. Parole e gesti per raccontare l'eroismo (ma non dite questa parola al sergente Rigoni perché storcerebbe il naso!) di chi, a 40 sotto zero deve farsi a piedi "5600 chilometri". Per raccontare l'infinita grandezza dell'animo umano che la guerra fa venire a galla. Il sergente trova da mangiare in un isba russa, tra soldati russi e donne che cucinano. A tavola con quelli che non chiama mai nemici. Lo hanno accolto, perché ha bussato e chiesto "permesso". Si infila sotto i teli, Marco Paolini, e ci si avvolge. Spunta la testa da un buco e inizia a correre. La neve fino al collo. Magia del teatro. Usa il microfono con eco per far sovrapporre decine di voci e raccontare la battaglia di Nikolajewka, piccola e insignificante sul piano storico: i "veri" teatri di guerra erano Stalingrado, Leningrado e via dicendo. Noi, piccoli italiani, dovevamo accontentarci di Nikolajewka, un paese che nemmeno esiste, che "esiste solo sui libri di storia italiani". Il sergente ha voglia di morire quando si ritrova, superstite, accolto da due donne per giorni e giorni in attesa di salire sul treno che lo riporterà in Italia. Sente "il torto di esser vivo". La voglia di vivere, e di raccontare, gli torna quando sente il canto delle donne russe. Una donna che canta, un piccolo soffio di vita, per lui una tempesta.
Si accendono le luci in sala. Paolini torna Paolini, il racconto torna ad essere storia della letteratura italiana del '900. La magia, il Teatro, li ho ancora dentro.

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